Ultima

Berghain report

Well, I’ve done it, after five years in Berlin I finally stepped into Berghain. I haven’t a long, bitter history of being bounced, but I never felt like going before. I believe in timing and everything has its time to be done. Anyways, first impressions are important, aren’t they? So these are mine.

Besides the first moment of cheerfulness and the physical fatigue to suppress laughter when the infamous Sven sized me up from behind his tacky glasses, building an implausible suspense, it felt like I experienced everything else as if I stand askew between two parallel realities. I didn’t belong to any of them. I wasn’t fully immersed nor completely detached. I was inhuman among aliens. Super kind, translucid-skinned aliens who sometimes spoke to me: ‘ Sorry’ when they bumped into me, ‘Sorry’ when they occupied my spot on the dance floor, ‘Do you want some water?’. Aside from apologies and water (?) offerings there were no interactions. It might have been because I don’t drink water from strangers, or because I don’t take part in games in the bathroom-playground, or because my voice is inaudible inside that place. The setting helps hinder communication. Labyrinthine, yet rigorous architectures contribute to create isolation. The smooth walls and broad spaces of this austere, industrial building make Berghain the perfect temple of Western individualism.

Here everyone, by dancing alone, vents all the stress he has accumulated during the week, months, years. To move one’s limbs in rigid jerks or sometimes off-beat steps is a cathartic ritual. To hear only the speakers’ racket purifies from the thousand of thoughts buzzing in one’s ears. Even to show one’s body, naked or constricted in leather laces, it’s a redemptive act. Paradoxically this place is consecrated to sanity, because it impedes that people derail during the foolish pursuit of goals set by someone other than themself. It avoids that people fall into a spiral of impositions: ‘work!’, ‘have success!’,’ settle down!’, for those hours none of these things matter. Dreams, disappointments, projects crumbles under decibel bombing. Frustration, enthusiasm and doubt flow into mechanic movements.

It was empowering, yet I felt bewildered. Probably because I failed at human connection. I longed for a gaze which wasn’t altered, for a smile which wasn’t abaxial, for an emotion which wasn’t synthetic. Barghain felt an extremely lonely place, crowded with individuals, all eager to find the ultimate liberation, disciple of the ego-cult, inveterate in finding their temporary beatification. My salvation were the bartenders, the only saints I worship. Their polite small-talk, their interest in my well-being reminded me that after all this wasn’t the apocalypse of empathy, but merely a collective purgatory where everyone tries to cope with his own sins. And I, as everyone else in there, belong to the swarm of overturned cockroaches who frantically moved their legs trying not to die.

At 8am I gave up. A white-grey sky matching my skin slapped my face as I got out. I was walking, my eyes like slits, annoyed by the light and the sharp rain. “Where are you going?’ I lifted my head and a guy was waiting for me. He talked as if we knew each other. I would have usually answered drily something like ‘home’, but I didn’t. ‘Let’s walk together’ he said. Together. His proposal felt so genuine and banal that I said yes. Inside a packed club I’m alone, outside in Ostbahnhof morning nothingness I found company. We exchanged gazes, we shared smiles, all things which seemed impossible in the club darkness. Whispers and giggles resonated away from the throbbing music.

I was bewildered again. I was experiencing everything and its opposite. On one hand the absolute easiness in relating with a stranger, on the other hand the almost ascetic incommunicability on the dance floor. To let someone in, to let everything out. This endless day sublimated the ferocity with whom we try to feel the world around us, in every possible way. I’ve witnessed to the egoism dictated by the club variables of sound, light and spaces dissolving into the spontaneity of reaching out to someone just outside of it. It is possible that inside we feel like a whole organism, no matter how lost in our personal trips we are. We are in holy communion just because we are all there, all part of the same ritual. We don’t need more than that. But as soon as we step outside of that sacred ground there is the true perdition. We are on our own with our conundrums, we need others in order to feel better, we can’t manage it alone, we need exchanges, approval, contrasts. So maybe that’s why we are so keen on nail ourselves to the Berghain-cross,  because after the atonement we want redemption, we want to be able to walk among men again.

Tieni a mente

Ciao, 

è da tanto che non mi faccio vivo, ma non ti ho dimenticata, come potrei. Lo so che stai meglio senza di me, ma in fondo ti manco, so anche questo. Ogni tanto ti ricordi delle mie parole, ti si blocca un sorriso negli occhi e poi continui con la tua vita, seguendo i miei incoraggiamenti. Ti rivedo barcollare sui san pietrini in discesa, stringendo quelle due bottiglie, ridendo per scacciare tutta la tristezza che ti riempiva, io ti osservavo e tu sfuggivi vergognosa dalle mie considerazioni. 

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Risentimento

andammo a letto vestiti

per avere ancora più strati a tenerci lontano.

le scarpe le avevamo tolte piano

e gli occhi si evitavano, come quelli dei superstiti

che si vergognano del passato in comune

le serrande semi abbassate

i termosifoni spenti e il suo corpo immune

alle troppe parole sbagliate

le carezze trattenute

e i sospiri evasi a tradimento

le mie espressioni dispiaciute

il suo risentimento.

 

Tuffo di pancia

3927038758_866a9861c5_zUna volta mi hanno chiesto a quale animale pensassi di somigliare. Mi vergognavo di avere una risposta così banale, ma ho risposto „ad un gatto“, perché credevo fosse vero. Tutt’ora penso di avere varie caratteristiche in comune con questo felino, tipo la pigrizia sorniona, l’amore per il comfort casalingo e le lenzuola fresche di bucato, una certa indipendenza distaccata, il modo di dimostrare affetto, a volte non facile da capire. Il mio interlocutore mi ha detto però che non era d’accordo, secondo lui ero un pesce, al che mi sono indispettita e gli ho detto: „perché parlo poco?“. „No“ mi disse, „per il tuo modo di tormentarti con i pensieri, come un pesce che nuota in circolo in un acquario.“ Non risposi. „Però sei anche un lupo, per questa pulsione che hai, a cercare sempre nuovi territori in solitaria“. Un pescelupo, mi piaceva l’idea. Più tardi però ho realizzato che il mio amico non era un gran conoscitore del regno animale. Leggi il resto di questa pagina »

Fogli e lenzuoli

kauernderStrofinando le mani tra di loro mi sedetti. Ero entrato nel primo locale che avevo visto, ero entrato per ripararmi dalla pioggia. Avevo camminato tutto il giorno cercando di risolvere questioni che erano rimaste in sospeso. Dovevo riscaldarmi. Avevo scelto un tavolino in fondo alla sala, davanti alla finestra. Il bar era illuminato da candele, l’aria spessa di fumo. Chiesi un tè, pentendomi di non aver ordinato qualcosa di più forte. Non sentivo il mio cuore battere, non sentivo la mia pelle emanare calore. Non sentivo neanche gli altri parlare intorno a me. Ero incantato dalle gocce che come falene che sbattono contro la lampadina, si infrangevano contro il vetro freddo. Sembravano accorrere a guardare me, che come una marionetta in disuso giacevo scomposto sulla sedia. Cercavo di non muovermi per non far riaffiorare i mostri in superficie; qualsiasi contrazione involontaria del mio corpo avrebbe potuto scatenare una reazione indesiderata e fuori misura. Avrei potuto piangere, tanto quanto scoppiare a ridere. Tirai fuori dalla tasca la busta già strappata con la lettera che non avevo ancora avuto il coraggio di leggere. Leggi il resto di questa pagina »

Senza titolo

Non capisco il tuo cipiglio serio, soprattutto perché poi, quando apri bocca, dici solo sciocchezze. Non cose senza senso, ma cose buffe, fai ridere, eppure tu ridi così poco. Non mostri mai quei tuoi denti grandi. Mi piace pensare che essi siano il nostro retaggio fisico di un passato animalesco. Ossa antiche con le loro forme e affilature, delle quali non avremmo quasi più bisogno. Strumenti che un tempo servivano a lacerare carni crude, ma che adesso più che altro esprimono stati d’animo.

Sembra che tu però continui a usarli alla vecchia maniera, per lacerare la mia di carne. Ti piace straziarmi il corpo, vedere il mio volto accartocciarsi nel dolore, le mie membra contrarsi per resisterti, per sfuggirti. E nel buio dei nostri incontri tutto ciò che vedo è quel brillio crudele che scaturisce dalla tua bocca quando mi sbrana. Le mie fughe però sono inscenate, un pretesto mal celato per far sì che tu mi dia la caccia e che quando mi prenda, mi mostri tutta la tua ferocia, mi mostri quei tuoi denti grandi.

Adesso la capisco meglio quell’aria contrita, quel viso marmoreo che indossi durante il giorno, un vero carnefice non svela mai le sue armi più efficienti. Alla vittima non é dato sapere con quale arnese le verrà inflitta la grande sofferenza. E’ quando siamo soli io e te che stringi tra le due arcate la pelle della mia nuca tanto forte, fino a sentire tutto l’affluire del sangue. Mi lasci andare, solo per poi riaddentarmi un secondo dopo; proprio come farebbe un gatto con la sua preda. E come un animale anche io mi muovo sotto di te, sgusciando, rendendomi difficile da afferrare, ma è un gioco inutile perché in realtà io voglio perdere e morire tra quei tuoi denti bianchi.

Curry Verde

vietnamIl mio terapista mi aveva spiegato che esistono due tipi di figli, quelli che inconsciamente diventano uguali ai loro genitori, e quelli che finiscono per essere completamente l’opposto. Io appartenevo alla seconda categoria. Non che fosse voluto, in realtà io e mia madre abbiamo avuto un gran bel rapporto fino alla mia pubertà. Lei rimase incinta di me molto giovane, ai tempi in cui faceva la modella a Londra, per causa mia dovette abbandonare la carriera. Mi ha sempre ripetuto che avermi è stata la cosa più bella che le potesse capitare, ma si vedeva che il suo ego aveva subito un brutto colpo. Di mio padre non sapevo nulla, mia madre non amava parlarne. Io, passata una certa età, smisi di chiedere. Ero una bambina allegra e spensierata, come tutti i bambini dovrebbero essere, appena imparato a parlare non ho mai smesso, ero un’insolente linguacciuta. Grazie alla mia parlantina facevo amicizia con tutti, bambini, adulti, animale ed esseri inanimati. Mi affezionavo facilmente alle persone, anche ai vari fidanzati di mia madre. Con tutto il bene che posso volere alla mia genitrice, non posso dire di essere cresciuta in un ambiente sano; non so cosa siascattato nella mente di quella donna,non so se fosse colpa di tutta la coca che aveva tirato negli anni ottanta o se i suoi anni

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Miss Disagio

QHomer-Simpson-wingnuts-dohuando incontro la mia amica che mi alza il sopracciglio come a dire: “non male” rivolto al tipo che mi ha squadrato da capo a piedi, la prima frase che pronuncio è: “basta disadattati”. Poi mi ricordo che sono tra le finaliste di Miss Disagio 2014; soprattutto dopo quella sera.

Venerdì, tardo pomeriggio, diciamo verso le 18, sono già in pigiama, nel letto, a guardare grey’s anatomy, che essendo una serie di merda, ambientata in un ospedale é per forza di cose triste. Alla prima storia tragica ne approfitto per fare un piantarello, alla seconda anche. E’ la puntata più drammatica della storia dei medici di Seattle, quando finisce sembra che io abbia appena finito di affettare cinquecento cipolle. Non sto a sottolineare che in quaranta minuti sono entrata in depressione invernale, che di solito mi prende verso metà Gennaio. Accompagnata da paranoie esistenziali gratuite che non vi sto a  elencare perché mi vergogno. Leggi il resto di questa pagina »

brezza Marina

velieroBuffo che fosse stata proprio lei a regalarmi quel libro, „La ragazza con la valigia“, avevamo nove anni; ora é Marina la ragazza con la valigia, certo la sua storia non ha niente a che vedere con quella narrata tra le pagine di letteratura per l’infanzia; genitori, divorzi, eccetera non c’entrano niente. È qualcosa di più intimo che la spinge lontano, in realtà é lontana anche quando è qui. È assente anche quando è presente.

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Sgomento

Ero seduto nel vagone, di ritorno a casa dopo una giornata di lavoro. Fuori era già buio, l’aria pungente di Novembre mi aveva lasciato tutto intirizzito, ero ancora stretto nelle spalle, con i pugni chiusi in tasca e lo sguardo perso tra le facce degli altri passeggeri. Quando un giovane cominciò a suonare una chitarra di pessima qualità, ma non era importante, il suo strumento migliore era la voce, che profonda, ma un po’ ovattata cantava una delle mie canzoni preferite.

I know I know I know I know I know I know I know I know I know e all’improvviso anche io sapevo.

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